Delitala e Piersimoni partono dalle ferite inferte dalla pandemia all’economia globale, per analizzare il ribaltamento del paradigma degli ultimi anni accelerato dal Covid
Di Andrea Delitala (foto), head of euro multi asset, e Marco Piersimoni, senior investment manager di Pictet Asset Management.
A giudicare dai mercati finanziari, il 2020 non sembrerebbe un anno tanto sciagurato. Eppure, mentre i listini azionari, sospinti dalle manovre monetarie e fiscali espansive, si avventurano su nuovi massimi (l’S&P 500 ha rotto la barriera dei 3.700 punti), il mondo si trova ancora alle prese con la seconda ondata della pandemia di Covid-19, che ha messo in ginocchio il sistema sanitario, economico e sociale dell’intero pianeta. Ora che l’anno volge al termine, le buone notizie riguardo alla realizzazione di vaccini efficaci contro il coronavirus sono intervenute a restituire la speranza di un ritorno alla normalità a cittadini, imprese e governi di tutto il mondo.
Dal punto di vista economico, questo vorrebbe dire un rientro dell’economia globale su un percorso di crescita tendenziale, seppure su un livello più basso rispetto a quello pre-pandemico (nello scenario base elaborato dall’Ocse, perché il Pil globale torni al livello di fine 2019, occorrerà attendere l’ultimo trimestre del 2021). Ma l’incertezza rimane elevata e si rispecchia nella dispersione delle previsioni: la somministrazione delle prime dosi del vaccino sarà sufficiente a evitare una terza ondata di contagi? Le persone saranno effettivamente disposte ad assumere il vaccino? Si riuscirà a raggiungere la soglia di soggetti immunizzati necessaria per ottenere l’immunità di gregge? Sono questi alcuni dei quesiti a cui allo stato attuale è difficile trovare una risposta certa e che rendono particolarmente complicato l’esercizio di fare previsioni economiche per il 2021 (la forbice tra scenario migliore e scenario peggiore dell’Ocse è di 7.000 miliardi di dollari, circa l’8% del Pil mondiale di quasi 88.000 miliardi di dollari a fine 2019).
Lo stato di estrema incertezza non è l’unico lascito di questo 2020 all’insegna della pandemia. Come un devastante terremoto, il coronavirus ha prodotto delle profonde fratture sul piano economico e sociale. Se, infatti, a livello globale si è allargato il differenziale di crescita tra i Paesi emergenti, con l’Asia e la Cina in testa, e i Paesi sviluppati, tra i quali l’Europa è rimasta più di tutti indietro, allo stesso modo è aumentata la disuguaglianza tra classi sociali, con i dati che evidenziano come i più colpiti dall’ondata di disoccupazione provocata dal Covid siano i ceti a reddito più basso.
Una problematica particolarmente sentita nei Paesi anglosassoni e soprattutto negli Stati Uniti, dove mancano ammortizzatori sociali come la cassa integrazione (non a caso, durante il picco della crisi di quest’anno l’amministrazione Trump si è trovata costretta ad effettuare sostanziosi trasferimenti diretti ai cittadini). Le ripercussioni potrebbero essere più profonde e durature del previsto, visto che, anche tra i ragazzi, quelli provenienti dal quartile con il reddito più basso hanno potuto ricorrere alle forme di istruzione online in misura molto inferiore rispetto ai loro coetanei delle famiglie più abbienti. Lo squilibrio è talmente forte che persino il Presidente della Fed Jerome Powell ha sentito il bisogno di nominarlo più volte nel corso degli ultimi mesi.
Come effetto positivo del coronavirus, quest’anno si è diffusa ancor di più rispetto al passato la consapevolezza dell’urgenza di agire per la tutela dell’ambiente: il calo delle emissioni di CO2 registrato nel 2020 ha dimostrato che è ancora possibile avere un impatto benefico. In questo caso, il tema è particolarmente caldo in Europa. Il Vecchio Continente si è sempre mostrato all’avanguardia sulle politiche ambientali, fissando per primo l’obiettivo delle zero emissioni nette entro il 2050, e ha recentemente rivisto gli obiettivi intermedi per il 2030, rendendoli ancora più stringenti: si punta ora a una riduzione delle emissioni di almeno il 55% rispetto al livello base del 1990 (precedentemente, il target per il 2030 era un taglio del 40%).
Dopo oltre un decennio dominato dall’intervento delle banche centrali (dalla grande crisi finanziaria in poi), il 2020 sarà probabilmente ricordato anche per il passaggio di testimone dalla politica monetaria a quella fiscale. La prima, infatti, sembra avere ormai poco spazio di manovra residuo, dopo aver immesso quest’anno una quantità record di liquidità nel sistema economico nel tentativo (finora riuscito) di garantirne la stabilità finanziaria.
Ciò non significa che il supporto verrà meno, anzi le condizioni finanziarie rimarranno di sostegno ancora a lungo (è difficile immaginare risalite dei tassi, soprattutto di quelli reali, prima di qualche anno da oggi), ma è richiesto adesso l’intervento della politica fiscale. E per sanare le cicatrici lasciate dalla pandemia, saranno necessarie misure fiscali che vadano oltre la pura congiuntura, non più semplicemente anti-cicliche, ma di carattere strutturale.
In base a quanto detto finora, nei Paesi anglosassoni l’azione dei Governi sarà volta anzitutto a ridurre la disuguaglianza economica e sociale, mentre nell’Unione Europea la green rule sembra portare finalmente al superamento delle divisioni ideologiche all’interno della regione e alla condivisione di politiche di bilancio comuni, talora anche con fini redistributivi.
In questo quadro, l’Italia si trova certamente a godere di condizioni finanziarie particolarmente favorevoli per due fattori concomitanti: compressione dei premi di rischio ben al di sotto della norma (il fair value della componente di rischio credito sarebbe attorno ai 180 pb) e grazie al Next Generation Eu, l’Italia diventa prenditore netto di finanziamenti (e trasferimenti) in ambito Emu.
Tale circolo virtuoso porta il costo del nuovo debito vicino allo 0 con un risparmio nella spesa per interessi (oggi circa il 3,5% del Pil) che, finché i tassi medi all’emissione si mantengono a livelli così bassi, si trasmette gradualmente all’ingente stock di debito (158% del Pil). Per far sì che il mercato rimanga clemente nei confronti del Btp anche nel momento (ancora lontano, non prima del 2022) in cui verrà meno il sostegno della Bce, l’Italia deve necessariamente sfruttare l’occasione attuale per fare le riforme e presentarsi tra qualche anno con una ritrovata competitività. E chissà che il mondo che verrà non sarà in fin dei conti migliore.