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Anche con l’inflazione sono da privilegiare le azioni

Per Flossbach von Storch,  gli investitori a lungo termine non hanno alternative ai beni materiali di prim’ordine, preferibilmente azioni di società di ottima qualità. Ecco perché

L’inflazione è un tema al momento molto sentito, sia nelle discussioni con gli investitori sia nei media. Dopo la recente impennata dell’indice dei prezzi, soprattutto negli Stati Uniti, la domanda che tiene banco sui mercati riguarda cosa accadrà nei prossimi anni. Se, cioè, la tendenza proseguirà, magari con un’inflazione descritta talvolta nei commenti di mercato come ‘galoppante’ o se invece è in arrivo addirittura un’iperinflazione.

Secondo Walter Sperb, capital market strategist di Flossbach von Storch, l’inflazione non sfuggirà di mano nell’immediato, ma nei prossimi anni sarà più elevata che in passato. “Riteniamo plausibile un tasso del 2 o 2,5% o magari anche del 3%”, afferma. Su cosa si basano queste stime? Lo strategist prova a fare rapidamente il punto della situazione, osservando le tendenze sottostanti gli attuali dati inflazionistici. 

“Importante in questo senso è il fattore tempo – spiega -. Ecco perché operiamo una distinzione tra driver a breve termine di natura più ciclica, che condizionano l’andamento dell’inflazione, e fattori strutturali a più lungo termine. Cominciamo dall’inizio della linea temporale e quindi dalla pandemia di coronavirus e dalle sue conseguenze economiche. Probabilmente non sarebbe azzardato affermare che la crisi del coronavirus, la recessione del 2020, è stata più una crisi dell’offerta che della domanda”. 

Da un lato infatti, durante il lockdown, alcuni beni e servizi sono semplicemente ‘venuti meno’ perché non erano più disponibili o lo erano soltanto in misura limitata. Dall’altro lato, ci sono stati massicci aiuti da parte di governi e banche centrali che hanno assicurato ai privati risorse finanziarie sufficienti, che finora però sono rimaste inutilizzate. “La gente temeva infatti di poter perdere il lavoro o semplicemente non sapeva come spendere questi soldi (extra), visto che viaggiare o mangiare fuori non era più possibile. La situazione emerge molto chiaramente dal notevole aumento dei tassi di risparmio a livello globale, avvenuto praticamente in sincronia nelle varie economie”, osserva Sperb.

Nel corso della pandemia, anche il potenziale della domanda si è gradualmente ridotto, incoraggiando non da ultimo l’inflazione. “Il denaro che non poteva essere speso per viaggiare o andare al ristorante è stato spesso investito nelle quattro mura domestiche – argomenta lo strategist -: nuovi mobili, un televisore più grande, l’ultimo modello di notebook per lavorare da casa, senza dimenticare le innumerevoli cartucce per stampante o anche le piante da giardino o i fiori per i balconi. Questa tendenza si riflette appieno nei dati sulle vendite al dettaglio negli Stati Uniti, ma anche in Europa. Gran parte dei consumi è logicamente avvenuta online. L’ondata di denaro messa in campo da governi e banche centrali non si prosciugherà tanto presto”.

Nonostante questo, Sperb non si aspetta che la crisi del coronavirus in quanto tale si traduca in una pressione inflazionistica duratura e sproporzionata, anche se la vita sta gradualmente tornando alla normalità, con un conseguente aumento dei consumi e quindi dei prezzi. Al contempo, infatti, la domanda dei cosiddetti ‘beni da lockdown’tornerà a calare. “Chi ha comprato una casetta da giardino o un televisore, non lo farà più almeno per i prossimi cinque anni. Col tempo, quindi, entrambe le tendenze sono destinate a ridimensionarsi”, sottolinea.

In definitiva, a detta dello strategist, le aspettative d’inflazione stanno sì crescendo, ma non dovrebbero tradursi in tassi eccessivi. A suo avviso, infatti, questa visione ciclica e piuttosto a breve termine dell’inflazione, è ampiamente scontata dai mercati dei capitali. 

Più importante di questo scenario, è la prospettiva a lungo termine. Quali sono i principali catalizzatori della crescita e dell’inflazione per i prossimi anni e decenni? Per Sperb ce ne sono essenzialmente tre: l’andamento demografico, la globalizzazione e la tecnologia. Tutti e tre hanno già contribuito alla crescita economica globale e influenzato le tendenze inflazionistiche negli ultimi decenni.

Partiamo dagli sviluppi demografici. “I baby boomer stanno pian piano andando in pensione e le economie sviluppate stanno quindi perdendo lavoratori in termini nominali. In genere questa tendenza rafforza la posizione di chi resta sul mercato del lavoro, facendo così salire le retribuzioni e dunque l’inflazione. La cosa però non è così semplice – avverte -. Dall’altro lato, infatti, c’è il progresso tecnologico, la crescente digitalizzazione. Numerosi impieghi, specialmente quelli d’ufficio più semplici, stanno diventando obsoleti perché le ‘macchine’ sono molto più efficienti e quindi più economiche dell’uomo”. Pur non essendo una novità e non riguardando tutti i tipi di lavoro (sicuramente non categorie come badanti o muratori), alcuni ambiti ne sono particolarmente interessati. 

Resta la globalizzazione. “Siamo dell’idea che la globalizzazione continuerà, ma perderà slancio e che il suo ruolo di ‘ammortizzatore dell’inflazione’ non scomparirà, ma probabilmente non avrà più lo stesso effetto come in passato. In sostanza, sebbene l’inflazione sia tornata per restare, non sfuggirà di mano”, sostiene Sperb

I risparmiatori farebbero comunque meglio a non cantar vittoria: anche un aumento moderato, infatti, potrebbe penalizzare pesantemente. “Alla luce dell’indebitamento globale – mette in guardia lo strategist – i tassi d’interesse rimarranno (dovranno rimanere) relativamente bassi. Le possibilità delle banche centrali di contrastare un aumento permanente dell’inflazione (una volta esaurito il ‘credito di inflazione’) sono limitate. I loro rappresentanti dovranno sempre soppesare i danni collaterali di un intervento troppo ambizioso sui tassi d’interesse. Ad esempio gli effetti sul mercato immobiliare o sulla stabilità del sistema bancario. Con queste premesse, si può dunque supporre che le misure future, cioè gli eventuali aumenti dei tassi d’interesse, se mai ci saranno, non andranno oltre le ‘dosi omeopatiche’”.

Alla luce di questo, quindi Sperb conclude ribadendo che nel contesto attuale gli investitori a lungo termine non hanno alternative ai beni materiali di prim’ordine, preferibilmente azioni di società di ottima qualità.

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