Per T. Rowe Price, se Londra sfrutterà al meglio l’autonomia normativa e il momentum politico per implementare riforme, gli effetti positivi sul Pil potrebbero essere significativi
L’attesa è finita. Quattro anni e mezzo dopo il referendum, il Regno Unito è uscito dal mercato unico e dall’unione doganale dell’Unione Europea. E lo ha fatto con un accordo commerciale chiaro su alcune aree, ma con alcune incertezze su quello che Brexit implicherà nella pratica.
Il Trade and Cooperation Agreement (TCA), sulle relazioni commerciali e di sicurezza post-Brexit sarebbe stato definito una ‘hard Brexit’ al momento del referendum, secondo Quentin Fitzsimmons e Tomasz Wieladek, rispettivamente gestore del fondo T. Rowe Price Funds Sicav – Global Aggregate Bond Fund e international economist di T. Rowe Price. “L’accordo sul commercio di merci senza dazi e quote implica che non ci saranno tasse sulle merci interamente prodotte nel Regno Unito o nell’Ue – chiariscono i due esperti -. Tuttavia, la clausola delle ‘regole d’origine’ del TCA significa che le imprese britanniche che vendono beni che contengono componenti prodotti al di fuori del Regno Unito o dell’Ue possono essere soggette all’imposta sul valore aggiunto e a dazi sull’importazione. Anche le barriere non tariffarie aumenteranno, dato che gli scambi commerciali tra Regno Unito e Ue sono soggetti a una serie di nuove normative, controlli e burocrazia. Il governo britannico ha stimato che ci saranno 215 milioni di moduli di dichiarazione doganale in più per le imprese britanniche che importano o esportano merci”.
Sebbene alcune di queste frizioni avranno un impatto permanente sullo scambio di merci, a detta di Fitzsimmons e Wieladek il peso dei costi di aggiustamento dovrebbe essere di breve termine e temporaneo. A preoccupare maggiormente è la poca attenzione posta dal TCA sul settore dei servizi, la principale fonte di esportazioni del Regno Unito. “Anche se alcuni servizi, come il settore legale, sono coperti dall’accordo, molti altri non lo sono – avvertono -. Il comparto dei servizi finanziari britannico, ad esempio, dovrà fare affidamento sulla concessione di una ‘equivalenza’ da Bruxelles per fornire gli stessi servizi di prima all’interno dell’Ue (un accordo di equivalenza riconosce che le regolamentazioni di un paese terzo sono equivalenti a quelle dell’Ue, permettendo alle aziende di entrambi i territori di operare nelle rispettive giurisdizioni)”.
Regno Unito e UE dovrebbero firmare entro marzo un memorandum d’intesa sulla regolamentazione e sulla cooperazione per i servizi finanziari. La Commissione Europea probabilmente garantirà l’equivalenza solo dopo aver valutato le divergenze normative, e secondo i due esperti ha un forte interesse a riconoscerla solo a quei segmenti in cui Londra ha un forte vantaggio competitivo e che non possono essere facilmente replicati nell’Ue. È quindi improbabile che i servizi finanziari godranno dello stesso livello di accesso rispetto al pre-Brexit. Nell’attesa, l’accordo attuale è più vicino a un ‘no deal’ per i servizi finanziari, il che è una fonte di preoccupazione dato che, secondo la Corporation of London, il segmento contribuisce per il 10,5% di tutte le entrate fiscali del Regno Unito, e circa il 40% delle esportazioni del settore riguardano l’Ue.
Cosa succede ora? Per Fitzsimmons e Wieladek gli scambi commerciali in molti ambiti resteranno immutati finché i lockdown per il coronavirus saranno in vigore e molte aziende britanniche hanno fatto scorta di merci dall’Ue prima del 31 dicembre. La UK Border Force ha detto che applicherà il nuovo regime doganale solo dopo giugno 2021. “Questi fattori allevieranno l’impatto iniziale dell’uscita del Regno Unito: solo quando la pandemia sarà alle nostre spalle le implicazioni normative di più lungo termine del TCA diverranno chiare”, precisano.
“Nel breve termine le prospettive economiche del Regno Unito dipenderanno sia dai costi di aggiustamento, sia dall’evoluzione della pandemia – proseguono i due esperti -. Sebbene l’aumento delle scorte, i limitati scambi a causa del Covid-19 e i controlli meno stringenti da parte della UK Border Force mitigheranno la disruption, è probabile che l’impatto sulla produzione diverrà evidente nel primo trimestre di quest’anno. Ciò probabilmente peserà sui rendimenti dei Gilt e sulla sterlina”.
Ma come sottolineano Fitzsimmons e Wieladek, il Regno Unito al momento sta vaccinando la popolazione a un ritmo molto maggiore rispetto all’Eurozona: se Londra potrà iniziare ad allentare le restrizioni 3-4 settimane prima dell’UE, ciò probabilmente rafforzerà la sterlina sul dollaro e porterà a un aumento del rendimento dei Gilt entro la primavera, con gli investitori che guarderanno ad asset più rischiosi. “L’uscita del Regno Unito dall’UE rappresenta un notevole cambiamento di regime, e ci vorrà tempo prima che il nuovo equilibrio economico venga raggiunto. Le frizioni sul piano commerciale probabilmente avranno effetti negativi di medio termine sul Pil UK, ma Londra potrebbe controbilanciarli se sfrutterà la nuova libertà normativa in modo intelligente”, aggiungono.
Per Fitzsimmons e Wieladek sono tre le vie possibili. La prima è che Londra potrebbe deregolamentare alcune parti dell’economia che non sono coperte dall’accordo, come il settore dei servizi finanziari. Per esempio, il governo britannico potrebbe eliminare il limite dei bonus bancari dell’Ue. La seconda opzione sarebbe quella di ridurre l’implementazione britannica della normativa Ue allo standard europeo. Ciò aumenterebbe la competitività senza innescare alcun dazio in risposta. Infine, terza possibilità, il Regno Unito potrebbe usare il momentum politico legato a Brexit per spingere una riforma economica in ambiti non legati a Brexit e Ue, come il sistema di pianificazione edilizia.
Insomma, gli effetti di più lungo termine della Brexit e delle riforme economiche sul Pil britannico sono incerti. L’impatto delle frizioni commerciali sul Pil Uk dipenderà da alcuni fattori importanti, che devono ancora essere risolti, come il nuovo framework per la fornitura di servizi finanziari nell’Ue. In modo simile, l’impatto delle riforme sulla crescita della produttività dipenderà fortemente dalla portata e dall’accettazione politica di tali riforme.
“Le frizioni sul fronte commerciale peseranno sicuramente sul Pil britannico per un certo periodo, anche quando la pandemia sarà finita – concludono i due esperti -. D’altra parte, se il governo sfrutterà al meglio l’autonomia normativa e utilizzerà il momentum politico per implementare riforme nei settori non legati a Brexit, gli effetti positivi sul Pil potrebbero essere significativi e visibili nell’arco di 2-3 anni. Se vi saranno segnali che questo sarà il percorso intrapreso dal Regno Unito, ciò porterà probabilmente a una curva dei rendimenti più ripida per i Gilt e a un rafforzamento della sterlina sull’euro, rispetto agli attuali livelli, nel medio termine”.