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Investimenti, perché scommettere sulla moda di seconda mano

Black Friday

Il mercato dell’usato dovrebbe raddoppiare nei prossimi 5 anni, arrivando a 77 miliardi di dollari, ed entro il 2030 può raggiungere volumi doppi rispetto al fast fashion. La view di Columbia Threadneedle Investments

Gli sprechi e l’impronta di carbonio in costante crescita fanno della moda una delle industrie più inquinanti al mondo. Ogni anno si vendono circa 100 miliardi di articoli di abbigliamento, ovvero circa il 50% in più rispetto al 2006, principalmente a causa dell’avvento del ‘fast fashion’. In effetti, oggi il settore emette più CO2 dell’industria aeronautica e di quella navale messe insieme, e usa 79 miliardi di metri cubi di acqua dolce all’anno, senza contare l’inquinamento idrico causato dalla produzione delle materie prime e dei tessuti. Un impatto insostenibile, che secondo Andrea Carzana e Olivia Watson, rispettivamente gestore azionario europeo e analista investimenti responsabili di Columbia Threadneedle Investments, sta portando consumatori, produttori e governi a spingere per il riciclo e la rivendita dei capi, mettendo quindi le ali all’abbigliamento di seconda mano. Un settore, questo, in netta crescita che rappresenta un’interessante opportunità di investimento.

“Sfortunatamente, una quota minuscola di ciò che il settore della moda produce viene riciclato e riutilizzato; la maggior parte degli articoli finisce in discarica o negli inceneritori entro un anno dalla produzione”, sottolineano i due esperti, che citano la Ellen MacArthur Foundation, secondo cui l’industria mondiale della moda produce circa 53 milioni di tonnellate di fibre all’anno, di cui più del 70% finisce per diventare un rifiuto. “Meno dell’1% viene riutilizzato per produrre nuovi capi d’abbigliamento. Tuttavia, al momento ci troviamo nelle fasi iniziali di una transizione strutturale a livello dei consumi di capi di vestiario, trainata dai consumatori più giovani e caratterizzata da una crescente presa di coscienza in materia di sostenibilità”, affermano. 

I venditori stanno infatti iniziando ad abbracciare l’idea del riciclo e della rivendita, mentre i governi stanno ideando una serie di iniziative a sostegno della transizione. Oltre al riciclo, trend in crescita, l’espansione del mercato del riutilizzo e dei capi di seconda mano è destinata a offrire agli investitori un’incredibile opportunità: “Secondo le proiezioni, dovrebbe raddoppiare nei prossimi cinque anni, arrivando a quota 77 miliardi di dollari, ed entro il 2030 potrebbe raggiungere volumi doppi rispetto al fast fashion”, evidenziano Carzana e Watson.

Moda, i consumatori trainano il cambiamento

Tra gli attori che sono stati capaci di identificare e cogliere questa opportunità troviamo Zalando, società di e-commerce nel campo della moda e del lifestyle. “L’azienda si prefigge di integrare la sostenibilità e i principi dell’economia circolare nella sua strategia, con l’obiettivo di diventare una piattaforma del fashion a impatto netto positivo – argomentano i due esperti -. La società dovrebbe trarre vantaggio dalla crescente convergenza delle preferenze dei consumatori verso prodotti più sostenibili e un sistema incentrato sulla rivendita. Puntando molto sulla promozione della circolarità, Zalando si è prefissata di allungare la vita utile di almeno 50 milioni di prodotti e generare il 25% del volume lordo di merce da prodotti più sostenibili entro il 2023, in rialzo rispetto al 16% del 2020”. 

“A tale scopo – proseguono -, la società ha introdotto un sistema basato su categorie e filtri per individuare i prodotti più sostenibili sulla sua piattaforma, permettendo ai consumatori di selezionare articoli di una serie di brand attenti a temi quali materiali ecosostenibili, salvaguardia delle risorse idriche e benessere dei lavoratori Per promuovere la circolarità, Zalando offre ai clienti la possibilità di acquistare e vendere capi di seconda mano su Zircle, la sua piattaforma proprietaria, e acquista indumenti usati direttamente dai suoi clienti attraverso l’iniziativa Pre-Owned. L’auspicio dell’azienda è quello di poter beneficiare della fidelizzazione basata su un maggiore coinvolgimento, capace di creare relazioni più durature e proficue con la clientela”. 

Ma secondo Carzana e Watson, l’attività osservata di recente in altri segmenti dell’economia suggerisce che altri grandi attori dell’industria della moda si stanno preparando a questo tipo di transizione strutturale di lungo periodo. “La società di e-commerce Etsy ha sborsato 1,6 miliardi di dollari per Depop, app britannica incentrata sull’abbigliamento di seconda mano, il cui bacino di utenti è composto per il 90% da giovani con meno di 26 anni – continuano -. H&M ha acquistato una partecipazione del 70% in Sellpy, piattaforma dell’usato orientata alla sostenibilità, e intende espandersi su 20 nuovi mercati nell’ambito di una forte spinta internazionale. COS, controllata di H&M, ha lanciato una piattaforma di rivendita digitale chiamata Resell, che consentirà la rivendita da consumatore a consumatore di articoli COS. Vinted, piattaforma europea di rivendita di indumenti online, ha raccolto 250 milioni di euro nel suo ultimo round di investimento e attualmente la sua valutazione è pari a 3,5 miliardi di euro. Persino la conglomerata del lusso Kering è coinvolta, con l’acquisizione di una partecipazione del 5% in Vestiaire Collective, piattaforma di rivendita peer-to-peer di moda di lusso”. 

Per i due esperti questi elencati sono cambiamenti strutturali diffusi nell’intero settore. “Un’altra mossa capace di innescare la transizione strutturale nel consumo di moda è il lancio della collezione di sneaker Nike usate e dell’iniziativa pilota Nike Refurbished, incentrata sulla rivendita – sottolineano -. È l’esempio di una società che ha deciso di entrare direttamente nel mercato della vendita di articoli usati, con potenziali implicazioni sulle vendite delle sue calzature nuove nonché sulle piattaforme di rivendita di terzi. Ad oggi, gran parte dei marchi di alto profilo ha evitato un coinvolgimento diretto nella vendita di articoli di seconda mano”.

Il supporto normativo alla moda di seconda mano

Accanto a tutte queste iniziative vi è anche un impulso normativo. Il Regno Unito e l’Ue si stanno adoperando per prendere le distanze dall’economia consumistica, produttrice di rifiuti, definendo obiettivi vincolanti per il 2030 e il 2050. “Textiles 2030 – spiegano Carzana e Watson – fa leva sulle conoscenze e sull’esperienza dei leader della sostenibilità nel Regno Unito per sostenere l’industria della moda e quella dei tessuti britanniche nel percorso verso la sostenibilità e il cambiamento sistemico. L’iniziativa è aperta a tutte le aziende coinvolte nella value chain della moda e dei tessuti, dai rivenditori agli attori del riciclo. Questo accordo volontario permette alle imprese di collaborare su obiettivi connessi al carbonio, alle risorse idriche e ai tessuti circolari, ma anche di partecipare al dibattito politico su scala nazionale con le autorità britanniche in vista di ulteriori sviluppi normativi. Il Dipartimento dell’ambiente, dell’alimentazione e degli affari rurali britannico è impegnato in una serie di consultazioni in vista di un piano basato sulla responsabilità estesa del produttore per la moda, l’edilizia, i veicoli, l’alimentazione e l’elettronica, e l’UE sta valutando meccanismi simili, anche per l’industria dell’abbigliamento, nell’ambito del suo Piano d’azione per l’economia circolare”. 

Queste iniziative rappresenteranno per i produttori una spinta a prendere decisioni più efficaci e sostenibili in fase di ideazione del prodotto, agevolando il riutilizzo o il riciclo degli articoli. “Nel caso della moda – fanno notare i due esperti -, è probabile che venga richiesto a brand e rivenditori di contribuire a finanziare il riciclo degli articoli e di innovare sotto il profilo della concezione di materiali e tessuti. Un terzo filone di supporto normativo indiretto proviene dai target di riduzione delle emissioni a livello nazionale, in linea con l’Accordo di Parigi, nonché dagli sforzi delle imprese per raggiungere gli obiettivi di azzeramento delle emissioni nette di carbonio”. 

Per Carzana e Watson, tutti questi fattori dovrebbero stimolare fortemente il trend della vendita dell’usato, poiché l’estensione della vita utile dei prodotti ha il potenziale di ridurre le emissioni dell’intero settore della moda. “Tutte queste diverse spinte a livello di consumi e di contesto normativo potrebbero tradursi in una transizione strutturale inarrestabile e a lungo termine – assicurano -. Senza contare che la rivoluzione è solo agli inizi. Se si considera che i consumatori nel mondo della moda prevedono di dirottare sugli articoli usati una porzione di spesa maggiore rispetto a qualsiasi altro settore, il settore dell’abbigliamento di seconda mano potrebbe rivelarsi un’eccellente opportunità di investimento”.

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