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Lusso, perché puntare sui premium brand

settore del lusso

Per Pictet Am, i premium brand del lusso beneficiano di bilanci solidi, flussi di cassa elevati e margini più vantaggiosi rispetto ai peer discrezionali dei consumatori. E il loro pricing power è evidente

Nonostante i forti risultati registrati quest’anno, a partire dalla seconda metà del terzo trimestre i marchi più prestigiosi del lusso, i cosiddetti premium brands, hanno visto un indebolimento dei prezzi delle loro azioni, tornate a risalire nel mese di novembre. Secondo Sandy Wolf, impact & analytics manager di Pictet Am, la causa dei ribassi deriva principalmente da due ragioni: un contesto di mercato dominato dall’incertezza, capace di infettare anche la domanda più resiliente, e l’errore di accostare i beni premium ai beni voluttuari.

“Complessivamente – osserva -, le vendite delle aziende premium sono aumentate del 24% nel terzo trimestre, superando i limiti della domanda cinese e confermando la resilienza del consumatore di fascia alta e la forte domanda di marchi premium negli Stati Uniti e in Europa”.

Per l’esperta, a fronte delle difficoltà generalizzate del 2022, la definizione di premium brands merita d’essere ripresa: il mercato dovrebbe infatti essere cauto nel disegnare il perimetro dei marchi di prestigio (provenienti dai settori lusso, viaggi, cosmetici e alcolici) che rispondono a dinamiche differenti rispetto agli altri prodotti destinati alla vendita al dettaglio. “Inoltre – sottolinea – questi brands non devono essere sovrapposti agli articoli sportivi, maggiormente esposti alle difficoltà delle catene di approvvigionamento, ai costi dei beni primari e al consumatore preoccupato della bolletta mensile del gas”.

In contrasto con il resto del settore dei beni voluttuari, a detta della Wolf i premium brands, e in particolare la fascia più alta di questi, sono esposti alla coorte di consumatori più resilienti e includono alcuni dei nomi più longevi del commercio al dettaglio. “Parliamo di realtà come Remy Cointreau, Louis Vuitton o la stessa Hermes che risalgono addirittura al 18° e 19° secolo. Si tratta di firme caratterizzate da elevata capacità di innovazione e differenziazione dei prodotti, con un’importante componente di acquisto esperienziale e postvendita – chiarisce -. Raggiungere il livello di marchio premium implica un forte impegno a preservare la reputazione del nome, un’attività che richiede uno stretto controllo delle catene di approvvigionamento e della produzione rispetto agli standard”. 

Lusso, sviluppo digitale e marchi premium

Negli ultimi anni, anche i premium brands hanno investito molto nello sviluppo online, incentivati dalla pandemia a differenziare la distribuzione su più canali e a investire in attività di marketing e personal branding. Questo ingresso nel mondo digitale, secondo l’esperta, non solo ha aperto le porte a nuovi consumatori lontani dal tradizionale acquisto nelle boutique di punta (dagli acquirenti full digital della Generazione Z, al nuovo ceto medio-alto cinese dislocato nel Paese), ma ha anche aumentato il potenziale del business, mantenendo la promessa di flussi in entrata dalle nuove dimensioni digitali, metaverso in primis. 

“Secondo Bain & Company – argomenta la Wolf -, entro il 2035, la Gen Z potrebbe rappresentare il 40% degli acquisti globali di beni di lusso, rispetto al solo 4% di oggi. Sul mercato si è inoltre attestato un nuovo modo di attirare clientela, integrando pratiche di digital engagement con clienti potenziali ed esistenti capaci di offrire modalità di acquisto esperienziale. Per interagire con i clienti del futuro, alcuni marchi stanno sperimentando la realtà aumentata per migliorare il passaggio alla vita reale o l’ingresso nel metaverso con avatar digitali e beni virtuali nella forma dei token non fungibili (Nft)”.

I premium brands tendono anche a beneficiare di bilanci solidi, flussi di cassa elevati e margini più vantaggiosi rispetto ai peer discrezionali dei consumatori. “Il loro pricing power è evidente nell’incessante aumento dei prezzi tra lo 0% e il 5% registrato fino al 2020, che non ha avuto alcun impatto negativo sui volumi di vendita. Anzi, negli ultimi anni, a prezzi crescenti hanno fatto seguito tassi di conversione più elevati e una crescita degli acquisti”, afferma.

La strategia d’investimento sui premium brands

Sebbene l’incertezza del mercato guidata da un’overdose di fattori esogeni (dall’aumento dell’inflazione alle sfide della catena di approvvigionamento, alle crisi geopolitiche) continui ad alimentare la volatilità anche in questa fase di chiusura d’anno, la Wolf ricorda che non bisogna dimenticare i fondamentali. La domanda di ‘qualità’ appare infatti forte in tutti i segmenti, specie verso quelle attività relative a viaggi, tempo libero, lusso e settore Food&Beverage di prestigio. 

“L’unica eccezione – prosegue – è rappresentata dagli articoli sportivi, per i quali la fase di debolezza continua dietro all’eccesso di scorte che accentua le aspettative di ulteriori pressioni sui margini. Tale discorso non vale per la parte di offerta di attrezzatura sportiva di fascia alta.

Nemmeno i premium brands sono però esenti dalle pressioni di breve. Nonostante solidi fondamentali e caratteristiche in grado di far fronte alle crisi, anche i marchi di lusso sono influenzati dal sentiment dei consumatori e possono risentire del quadro incerto di breve termine. Non escludiamo pertanto una certa volatilità almeno finché il conflitto ucraino non si sarà attenuato e la Cina non avrà posto la parola fine alle complicazioni causate dal Covid. Riteniamo però che i driver della crescita secolare di questo ambito di investimento persisteranno intatti nel lungo periodo”.

“Il mercato ha già subito alcune importanti correzioni, in particolare per quanto riguarda i titoli esposti ai consumi, che potrebbero aprire a nuove opportunità di ingresso rispetto alle prospettive di crescita. I marchi più noti, desiderati, capaci innovarsi e soddisfare le aspirazioni dei consumatori saranno ancora una volta scelte vincenti”, conclude la Wolf.

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