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Vincitori e vinti della guerra delle commodity

Il conflitto in Ucraina ha causato uno shock sul mercato delle commodity. Nei mercati emergenti, alcuni Paesi risultano chiari vincitori, mentre altri devono fronteggiare uno scenario complesso

Di Marco Piersimoni e Flora Dishnica, senior investment manager e product specialist di Pictet Am

Il conflitto in Ucraina ha sconvolto il mondo intero, causando una grave crisi sociale e umanitaria, oltre che economica. Proprio in questi giorni il Fondo Monetario Internazionale ha abbassato le stime per la crescita del PIL globale nel 2022 dal 4,4% al 3,6%. Una delle conseguenze più significative della guerra russo-ucraina è lo shock provocato sul mercato delle materie prime. Bastano pochi numeri per comprendere la rilevanza di Russia e Ucraina nel commercio mondiale delle commodity.

La Russia è uno dei principali fornitori al mondo di commodity nei settori dell’energia (al Paese fanno capo quasi il 10% delle esportazioni globali di petrolio e il 6% di quelle di gas), dei metalli (45% delle esportazioni globali di palladio e 15% di quelle di platino) e dei beni alimentari (5% delle esportazioni globali di grano). Ma il ruolo della Russia non si limita a questi beni primari, in quanto rappresenta anche un‘importante fonte per la produzione di fertilizzanti azotati (circa 12.6% delle esportazioni globali di fertilizzanti).

Guardando all’Ucraina, invece, è particolarmente importante per la produzione di beni agricoli: da sola pesa per il 10% delle esportazioni globali di grano, per il 14% di quelle di mais, per il 17% di quelle di orzo e per il 51% di quelle di olio di semi di girasole. Buona parte della produzione di questi beni avviene in aree dell’Ucraina dove attualmente si svolge la guerra, il che mette a rischio non solo le esportazioni di quest’anno ma anche le prospettive per le prossime stagioni.

Non è semplice sostituire gli approvvigionamenti di queste materie prime con altre fonti. Il mercato del petrolio ha molteplici attori, alcuni dei quali in grado di aumentare la produzione (Usa) o ritornare sul mercato (Iran, Venezuela). Più impegnativo può risultare, invece, trovare Paesi in grado di rimpiazzare Mosca sul fronte dei metalli (palladio in particolare, fondamentale per l’industria automobilistica) e del grano. In questo caso, potrebbero essere importanti i contributi dell’America Latina e di alcuni Paesi asiatici. Il quadro, tuttavia, non è di certo dei più semplici.

Le implicazioni dello scenario descritto per i mercati finanziari sono molteplici e rendono ancor più determinante una gestione flessibile degli investimenti, capace di reagire con tempestività al contesto in cui ci muoviamo. La necessità di base è quella di valutare le conseguenze a livello più granulare, a seconda del Paese o dell’area nell’universo investibile.

È chiaro che si tratta di un problema particolarmente grave per l’Europa: infatti, se gli Stati Uniti sono tra i maggiori produttori mondiali di gas e petrolio, l’Europa importa invece il 60% dell’energia di cui ha bisogno. Leggermente diversa e più complessa è la lettura delle implicazioni di questa situazione per i mercati emergenti, poiché sono composti da un universo molto ampio e variegato di Paesi, alcuni dei quali, come detto, possono giocare un ruolo importante nel sostituire parte della produzione persa a causa del conflitto.

Il fattore discriminante si lega allo status di Paese importatore o esportatore di materie prime. Per molti Paesi emergenti, infatti, l’attività economica principale all’interno del settore privato e/o statale è connessa alla produzione e all’esportazione delle materie prime. Ciò ha fatto sì che storicamente buona parte della performance dei mercati finanziari di questi Paesi dipendesse dai cicli delle materie prime.

La reazione dei mercati nel contesto attuale non si è scostata da quanto osservato in occasioni passate. Le aree più colpite sono state senza dubbio quelle limitrofe al conflitto, una porzione dell’Europa emergente (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e via dicendo) danneggiata non solo per le importazioni da Russia e Ucraina ma anche attraverso altri canali dell’economia, come il turismo.

Ci sono poi alcuni Paesi emergenti fortemente impattati a causa della dipendenza dalle importazioni di beni agricoli dalla Russia e dall’Ucraina, come l’Egitto e la Turchia. Circa metà delle importazioni di grano dell’Egitto arrivano dalla Russia, e un ulteriore 30% dall’Ucraina. Per la Turchia, invece, il 70% del grano viene importato dalla Russia e il 15% dall’Ucraina (la Turchia soffre anche del calo del flusso dei viaggiatori, da sempre molto legato al turismo russo). Oltre a Egitto e Turchia, ci sono altre economie minori che dipendono in misura significativa dalle importazioni agricole da Russia e Ucraina, come Pakistan, Bangladesh, Libia, Marocco e Tunisia. 

Tuttavia, nel complesso questi Paesi hanno un’importanza molto marginale a livello di universo investibile, considerato che alcuni di essi non sono nemmeno accessibili agli investitori stranieri.

L’India, anch’essa importatrice netta di beni, da un lato si trova a subire l’aumento dei prezzi dei fertilizzanti fondamentali per la produzione nazionale di beni agricoli come grano e riso, necessari per coprire il fabbisogno domestico; dall’altro, avendo mantenuto attivo il commercio con la Russia, importa petrolio con contratti a sconto che dovrebbero aiutare ad attenuare l’effetto inflazionistico del rincaro energetico.

I Paesi importatori di energia e beni alimentari, dunque, soffrono sia per gli effetti diretti dell’aumento del costo di approvvigionamento di questi beni che per l’effetto secondario tramite il canale dell’inflazione che, in risalita quasi dovunque, mette pressione sulle politiche economiche interne.

Quando guardiamo ai più grossi importatori delle materie prime, fa eccezione la Cina, poiché la relazione commerciale con la Russia prosegue per il momento a pieno regime. È possibile anche che la Cina possa avvalersi dello stato di “ultimo acquirente” per approvvigionarsi a prezzi convenienti di molte materie prime russe. Va detto, però, che in Cina è in vigore una politica di zero-Covid molto stringente, causa di forti rallentamenti all’attività economica del Paese e di potenziali pressioni al ribasso sulla domanda di materie prime (di cui il Paese è uno dei principali consumatori al mondo).

Ci sono, però, anche aree e Paesi che hanno giovato dell’aumento dei prezzi delle materie prime, anche per la prospettiva di essere una possibile fonte sostitutiva delle commodity prima provenienti da Russia e Ucraina.

I primi sono sicuramente i grandi produttori di petrolio concentrati in Medio Oriente. C’è poi l’America Latina, in grado non solo di soddisfare autonomamente il proprio fabbisogno di energia, ma anche di esportare buona parte della propria produzione. In America Latina, area in generale molto ricca in risorse naturali, tra il 20% e il 45% degli indici azionari è costituito da settori energy e materials, già premiati dagli investitori ben prima dello scoppio della guerra per le prospettive di risalita dei prezzi delle materie prime. 

Paesi come il Cile ad esempio, il più grande produttore al mondo di rame, non può che beneficiare anche dalle prospettive di una più rapida transizione energetica tramite la produzione da fonti rinnovabili dove proprio il rame è uno tra i componenti più importanti per lo stoccaggio e distribuzione di energia rinnovabile. O ancora il Sud Africa, Paese esportatore di metalli come ferro e platino che ha visto di recente incrementare i ricavi dal commercio, a sostegno del bilancio dello Stato e della valuta.

In generale, i Paesi esportatori di materie prime in America Latina, Medio Oriente e Africa, oltre a essere geograficamente isolati dal conflitto, trarranno vantaggio dall’aumento del prezzo del petrolio, dei metalli e di altre materie prime. Il debito, unico strumento facilmente a disposizione degli investitori internazionali in Paesi come Angola ed Ecuador (esportatori di petrolio), ha registrato ottime performance negli ultimi mesi. Anche le valute possono rivelarsi molto utili in tal senso: non a caso, real brasiliano e rand sudafricano sono state tra le migliori divise emergenti in questo periodo.

Le ramificazioni sulle materie prime indotte dallo shock geopolitico hanno creato importanti divergenze nelle prospettive dei mercati emergenti. Questo rafforza la nostra filosofia negli investimenti in queste aree, volta a sfruttare l’eterogeneità in termini di regioni e Paesi e a perseguire un approccio multi-asset attivo. La dispersione tra le performance dei vari strumenti finanziari dei mercati emergenti offre una grande opportunità per creare valore sfruttando la dinamicità, la flessibilità e la libertà d’azione tipiche di tale tipologia di investimenti. 

In questa fase, abbiamo privilegiato la selezione, rafforzando le scelte all’interno del portafoglio a favore dei Paesi esportatori di materie prime, i chiari vincitori nel contesto attuale, come Arabia Saudita, Brasile e America latina in generale, e Sud Africa (sia nella componente azionaria che in quella obbligazionaria). I temi di investimento correlati alle materie prime rappresentano circa il 25% del portafoglio del fondo Pictet–Emerging Markets Multi Asset (EMMA) e hanno fruttato circa 250 pb durante il primo trimestre di quest’anno. Per gli stessi motivi le uniche esposizioni valutarie diverse dal dollaro hanno riguardato brl, mxn, zar e cny.

Da qui in avanti, è probabile che gli esportatori di materie prime, i Paesi ad alto rendimento e i Paesi lontani dal conflitto continueranno a sovra-performare l’universo dei Paesi emergenti. Almeno fino a quando le tensioni geopolitiche non si affievoliranno.

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